RECANATI CALANDRONE
CALANDRONE POESIA MORALE
Nell’intervista a Maria Grazia Calandrone e Giovanna Frene del 2011 (imperdonabilmente non-pubblicata dal “Mattino” di Padova), quando le invitai al Caffè Pedrocchi a parlare del “trasalimento” in poesia, di Maria Grazia già notavo come il tono della voce, la sintassi della sua oralità fosse l’essenza della sua ‘ragione poetica’. La poesia è innanzitutto parola, azione transitiva, comunicazione a un altro essere umano. La sua scrittura, la sua valenza letteraria, è una conseguenza successiva, un’intenzione di trasmissione a future generazioni. Il più antico testo poetico dell’umanità, il Ṛg Veda fu scritto dopo millenni di recitazione orale. Così, nei poeti che abbiamo la fortuna di ascoltare dal vivo, possiamo decifrare la loro scrittura secondo quanto la loro voce ci ha detto.
La pluralità tematica che la scrittura poetica poi mette in forma, nel caso della Calandrone sembra potersi convogliare in un’unica intenzione, quella morale. Infatti dal suo ultimo libro Il bene morale (Crocetti 2018) ha in prevalenza letto a mezzanotte sul Colle dell’Infinito. E le ambizioni della sua poesia a farsi paleo-antropologia (come un’Odissea nello Spazio di Kubrik) o cronaca, possono percepirsi come infinite variazioni di un’indomabile afflato di pietas, di commozione per la vita comune sempre più offesa, eppure immortalmente rivissuta dalla parola poetica che non dimentica. Si dice che si perdona ma non si dimentica, e come dimenticare gli orrori contemporanei – dall’acido in cui la mafia, allo stesso modo dell’incidente alla Thissenkrupp, scioglie i corpi (che sono “l’unica anima disponibile”), alla follia organica delle “tangenziali”, alle stragi di annegati nel Mediterraneo. E come ignorare l’attualissima industria del sorriso incantevole, la nuvola svanente che Norma Jeans ha interiorizzato per diventare l’icona del desiderio Marilyn Monroe ? Paul Celan riuscì a scrivere una diversa ‘poesia’ durante e dopo la Shoah, ma non a sopravviverne a lungo.
In una delle ultime interviste (ad Ahmed Loughlimi, in “Al Akhbar”, Marocco, 2016) Calandrone chiarisce la sua visione profonda della poesia: attingendo a “un mondo amniotico, edenico, platonico, protoverbale” la poesia aiuta a trasportarci “altrove”, “risvegliando la compassione, il senso di essere parte della comunità umana, vivente e non vivente, visibile e invisibile”. In che modo ? “accomunandoci nel segno di una bellezza indispensabile”. Ma questa bellezza indispensabile non solo non è, ovviamente, rievocazione di bellezza formale o consolante musica del verso – è bensì l’operazione che lei chiama “controcanto”: un’inversione dei percorsi reali, il ripercorrerli all’indietro ‘in minore’, con l’esattezza del chirurgo che incide la carne (del lettore o spettatore), per la passione con cui questo suturare le linee della ferita viene enunciato dalla sua voce, in una quasi ossessiva ricorsività della parola “sangue”. Un inflessibile, ben ritmato DOVER RICORDARE è la bellezza che Calandrone ci consegna, nella massima tensione del suo non poter concedere alla performance la commozione originaria – pur rievocando la tenerezza di ogni vita appena nata.
La bianca batteria (e i suoni elettronici) del composto Calandrone figlio servivano forse a questo sacrificio sul Colle dell’Infinito.
Видео RECANATI CALANDRONE канала NICOLA LICCIARDELLO
Nell’intervista a Maria Grazia Calandrone e Giovanna Frene del 2011 (imperdonabilmente non-pubblicata dal “Mattino” di Padova), quando le invitai al Caffè Pedrocchi a parlare del “trasalimento” in poesia, di Maria Grazia già notavo come il tono della voce, la sintassi della sua oralità fosse l’essenza della sua ‘ragione poetica’. La poesia è innanzitutto parola, azione transitiva, comunicazione a un altro essere umano. La sua scrittura, la sua valenza letteraria, è una conseguenza successiva, un’intenzione di trasmissione a future generazioni. Il più antico testo poetico dell’umanità, il Ṛg Veda fu scritto dopo millenni di recitazione orale. Così, nei poeti che abbiamo la fortuna di ascoltare dal vivo, possiamo decifrare la loro scrittura secondo quanto la loro voce ci ha detto.
La pluralità tematica che la scrittura poetica poi mette in forma, nel caso della Calandrone sembra potersi convogliare in un’unica intenzione, quella morale. Infatti dal suo ultimo libro Il bene morale (Crocetti 2018) ha in prevalenza letto a mezzanotte sul Colle dell’Infinito. E le ambizioni della sua poesia a farsi paleo-antropologia (come un’Odissea nello Spazio di Kubrik) o cronaca, possono percepirsi come infinite variazioni di un’indomabile afflato di pietas, di commozione per la vita comune sempre più offesa, eppure immortalmente rivissuta dalla parola poetica che non dimentica. Si dice che si perdona ma non si dimentica, e come dimenticare gli orrori contemporanei – dall’acido in cui la mafia, allo stesso modo dell’incidente alla Thissenkrupp, scioglie i corpi (che sono “l’unica anima disponibile”), alla follia organica delle “tangenziali”, alle stragi di annegati nel Mediterraneo. E come ignorare l’attualissima industria del sorriso incantevole, la nuvola svanente che Norma Jeans ha interiorizzato per diventare l’icona del desiderio Marilyn Monroe ? Paul Celan riuscì a scrivere una diversa ‘poesia’ durante e dopo la Shoah, ma non a sopravviverne a lungo.
In una delle ultime interviste (ad Ahmed Loughlimi, in “Al Akhbar”, Marocco, 2016) Calandrone chiarisce la sua visione profonda della poesia: attingendo a “un mondo amniotico, edenico, platonico, protoverbale” la poesia aiuta a trasportarci “altrove”, “risvegliando la compassione, il senso di essere parte della comunità umana, vivente e non vivente, visibile e invisibile”. In che modo ? “accomunandoci nel segno di una bellezza indispensabile”. Ma questa bellezza indispensabile non solo non è, ovviamente, rievocazione di bellezza formale o consolante musica del verso – è bensì l’operazione che lei chiama “controcanto”: un’inversione dei percorsi reali, il ripercorrerli all’indietro ‘in minore’, con l’esattezza del chirurgo che incide la carne (del lettore o spettatore), per la passione con cui questo suturare le linee della ferita viene enunciato dalla sua voce, in una quasi ossessiva ricorsività della parola “sangue”. Un inflessibile, ben ritmato DOVER RICORDARE è la bellezza che Calandrone ci consegna, nella massima tensione del suo non poter concedere alla performance la commozione originaria – pur rievocando la tenerezza di ogni vita appena nata.
La bianca batteria (e i suoni elettronici) del composto Calandrone figlio servivano forse a questo sacrificio sul Colle dell’Infinito.
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