La storia di KOBE BRYANT ||| Dall' Italia al Three-peat
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#kobebryant #kobe #lakers #mambamentality #blackmamba #mambaforever #nba
◾ La Storia di Kobe Bryant - Dall' Italia alla Nba ◾
E’ la primavera del 1978. Joe Bryant, soprannominato “Jellybean”, giocatore Nba dei 76ers, e sua moglie Pamela stanno cenando in un ristorante giapponese di Filadelfia. Sono in attesa del loro terzo bambino. Dopo due figlie femmine è finalmente in arrivo un maschio. Non hanno ancora scelto come si chiamerà. Quella sera però, mentre scorrono il menu, il loro occhio cade sul nome di una carne particolarmente famosa nel paese del Sol Levante. Suona bene. Si guardano e prendono la decisione. Si chiamerà così. Il 23 agosto 1978 nasce Kobe Bean Bryant. “Jellybean” dopo due stagioni cambia squadra e passa ai San Diego Clippers. In California, suo figlio, a soli due anni, ha il primo contatto con la squadra che gli cambierà l’esistenza. Kareem Abdul-Jabbar, stella dei Los Angeles Lakers, alla fine di uno dei classici derby lo prende in braccio e gioca con lui. All’età di 3 anni gli viene regalata la prima palla a spicchi. E’ un colpo di fulmine! Si innamora di quella sfera. Addirittura non la vuole usare per paura di rovinarla. Dopo poco, ecco un’altra svolta (la sua vita cambia in maniera netta). Il padre, dopo 3 stagioni ai Clips, passa ai Rockets e subito dopo decide di trasferirsi in Italia. Nel 1984 accetta la chiamata della Sebastiani Rieti, team militante in A2. Come molti giocatori non riesce a trovare la sua dimensione. Non riesce a capitalizzare il suo talento e si sposta oltreoceano, in una realtà completamente diversa da quella a stelle e strisce. E’ proprio qui che Kobe cresce dall’età di 6 anni. Gioca a calcio tutti i giorni e segue il Milan, ma è più interessato allo sport che pratica il padre. Viene così inserito nell’unica squadra di minibasket della città, anche se i suoi compagni hanno 3 anni in più. Si vede già che è più forte degli altri, tanto che gli allenatori lo devono togliere per permettere a tutti i bambini di toccare il pallone, dal quale non si stacca mai. E’ ossessionato da quell’oggetto sferico. Bryant Senior in Italia gioca bene e cambia più club. Dopo Rieti e Reggio Calabria, arriva a Pistoia ed infine Reggio Emilia. L’ Italia per il figlio, nonostante in famiglia si continui/a vivere da americani, diventa un po’ casa sua, anche se ovviamente, come per qualsiasi bambino, spostarsi in continuazione cambiando amici ed abitudini non è semplice. In tutti i luoghi in cui si trasferisce, però, continua a giocare a pallacanestro, lo sport del quale si innamora. Grazie a quello supera ogni ostacolo, perché il basket diventa il suo rifugio. Non ha importanza quello che accade, sa che in ogni caso può andare al campo a tirare. E così fa. Impara a padroneggiare tutti i fondamentali e proprio durante la sua permanenza nello stivale prende una decisione: diventerà un professionista. A 10 anni, durante un allenamento, si dispera per essersi fatto male ad un ginocchio. Non sembra niente di serio e i compagni gli chiedono perché piange. Kobe risponde “Non vi rendete conto che se mi faccio male non potrò andare a giocare in Nba.” Gli amici ridono. Dall’Italia al campionato più competitivo al mondo. Un’utopia. Lui però è sicuro. Ed è determinato ad ottenerlo. Ha una forza interiore che lo contraddistingue da tutti gli altri. Guarda le sfide tra Magic e Bird grazie alle videocassette che gli spediscono i parenti rimasti negli States. Assiste a quei filmati non per diletto ma per studiare i grandi di quello sport. Analizza ogni dettaglio e lo fa perché si pone un obiettivo: vuole diventare uno dei migliori giocatori della storia della pallacanestro. E’ questo il suo scopo. Il padre, nel ’91, termina la sua carriera in A1 con la Reggiana e decide di tornare negli Stati Uniti, a Filadelfia.
Da qui parte la sua carrier dall' High School alla Nba. Con Shaquille O'neal e Phil Jackson salirà sul tetto del mondo sviluppando quella che tutti conoscono come la Mamba Mentality.
Видео La storia di KOBE BRYANT ||| Dall' Italia al Three-peat канала Gianluca Fraula
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E’ la primavera del 1978. Joe Bryant, soprannominato “Jellybean”, giocatore Nba dei 76ers, e sua moglie Pamela stanno cenando in un ristorante giapponese di Filadelfia. Sono in attesa del loro terzo bambino. Dopo due figlie femmine è finalmente in arrivo un maschio. Non hanno ancora scelto come si chiamerà. Quella sera però, mentre scorrono il menu, il loro occhio cade sul nome di una carne particolarmente famosa nel paese del Sol Levante. Suona bene. Si guardano e prendono la decisione. Si chiamerà così. Il 23 agosto 1978 nasce Kobe Bean Bryant. “Jellybean” dopo due stagioni cambia squadra e passa ai San Diego Clippers. In California, suo figlio, a soli due anni, ha il primo contatto con la squadra che gli cambierà l’esistenza. Kareem Abdul-Jabbar, stella dei Los Angeles Lakers, alla fine di uno dei classici derby lo prende in braccio e gioca con lui. All’età di 3 anni gli viene regalata la prima palla a spicchi. E’ un colpo di fulmine! Si innamora di quella sfera. Addirittura non la vuole usare per paura di rovinarla. Dopo poco, ecco un’altra svolta (la sua vita cambia in maniera netta). Il padre, dopo 3 stagioni ai Clips, passa ai Rockets e subito dopo decide di trasferirsi in Italia. Nel 1984 accetta la chiamata della Sebastiani Rieti, team militante in A2. Come molti giocatori non riesce a trovare la sua dimensione. Non riesce a capitalizzare il suo talento e si sposta oltreoceano, in una realtà completamente diversa da quella a stelle e strisce. E’ proprio qui che Kobe cresce dall’età di 6 anni. Gioca a calcio tutti i giorni e segue il Milan, ma è più interessato allo sport che pratica il padre. Viene così inserito nell’unica squadra di minibasket della città, anche se i suoi compagni hanno 3 anni in più. Si vede già che è più forte degli altri, tanto che gli allenatori lo devono togliere per permettere a tutti i bambini di toccare il pallone, dal quale non si stacca mai. E’ ossessionato da quell’oggetto sferico. Bryant Senior in Italia gioca bene e cambia più club. Dopo Rieti e Reggio Calabria, arriva a Pistoia ed infine Reggio Emilia. L’ Italia per il figlio, nonostante in famiglia si continui/a vivere da americani, diventa un po’ casa sua, anche se ovviamente, come per qualsiasi bambino, spostarsi in continuazione cambiando amici ed abitudini non è semplice. In tutti i luoghi in cui si trasferisce, però, continua a giocare a pallacanestro, lo sport del quale si innamora. Grazie a quello supera ogni ostacolo, perché il basket diventa il suo rifugio. Non ha importanza quello che accade, sa che in ogni caso può andare al campo a tirare. E così fa. Impara a padroneggiare tutti i fondamentali e proprio durante la sua permanenza nello stivale prende una decisione: diventerà un professionista. A 10 anni, durante un allenamento, si dispera per essersi fatto male ad un ginocchio. Non sembra niente di serio e i compagni gli chiedono perché piange. Kobe risponde “Non vi rendete conto che se mi faccio male non potrò andare a giocare in Nba.” Gli amici ridono. Dall’Italia al campionato più competitivo al mondo. Un’utopia. Lui però è sicuro. Ed è determinato ad ottenerlo. Ha una forza interiore che lo contraddistingue da tutti gli altri. Guarda le sfide tra Magic e Bird grazie alle videocassette che gli spediscono i parenti rimasti negli States. Assiste a quei filmati non per diletto ma per studiare i grandi di quello sport. Analizza ogni dettaglio e lo fa perché si pone un obiettivo: vuole diventare uno dei migliori giocatori della storia della pallacanestro. E’ questo il suo scopo. Il padre, nel ’91, termina la sua carriera in A1 con la Reggiana e decide di tornare negli Stati Uniti, a Filadelfia.
Da qui parte la sua carrier dall' High School alla Nba. Con Shaquille O'neal e Phil Jackson salirà sul tetto del mondo sviluppando quella che tutti conoscono come la Mamba Mentality.
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